PO207 – L’ULTIMA PAROLA SPETTA VERAMENTE AL REUMATOLOGO?

Autori: Pisanu G. (1), Pellerano A. (1), Tangianu I. (1), Siddi A. R. (1), Macis F. (1), Pistis R. (1)
Affiliazioni:  U. O. Nefrologia e Dialisi Iglesias (CI), ATS Sardegna – ASSL Carbonia

La Sindrome di Sjogren è un disordine autoimmune caratterizzato da anormale risposta da parte delle cellule B e T verso autoantigeni, che determina:
– Infiammazione e danno a carico delle ghiandole esocrine, soprattutto lacrimali e salivari, inducendo la cosiddetta “sindrome sicca”,
– Manifestazioni extraghiandolari, caratterizzate da vasculiti cutanee e polmonari,
– Neuropatie periferiche,
– Interessamento renale (1).
La sindrome di Sjogren può manifestarsi a livello renale nella maggior parte dei casi con coinvolgimento tubulo-interstiziale, mentre raramente può manifestarsi con una GN membranosa o come MPGN tipo I o mista (tipo II o III) crioglobulinemica (1).
Quando il coinvolgimento è interstiziale le manifestazioni renali sono spesso caratterizzata da una disfunzione tubulare cronica che insorgono in genere 2 – 3 anni dopo la diagnosi immunologica, con:
– Proteinuria a basso grado,
– Lenta riduzione del filtrato glomerulare (2).
Rara risulta la presenza di nefrite interstiziale significativa (1). Raramente la Sindrome di Sjogren si presenta con AKI da necrosi tubulare acuta (1).
La Sindrome di Sjogren rappresenta la più frequente causa di acidosi tubulare renale distale acquisita e i pazienti possono presentare severa ipopotassiemia sintomatica (1). Meno frequentemente la sindrome di Sjogren si associa ad acidosi tubulare renale prossimale, ma in tal caso è presente sindrome di Fanconi con glicosuria, aminoaciduria e modici livelli di proteinuria tubulare (2) (trattasi di catene leggere urinarie dotate di tipiche caratteristiche fisiochimiche che cristallizzano all’interno delle cellule tubulari) (1).
Le forme conseguenti a compromissione tubulo-interstiziale hanno buona prognosi e rispondono a trattamento cronico con corticosteroidi (1). La prognosi peggiore si ha in presenza di GN crioglobulinemica, conseguente alla stimolazione di cellule B policlonali, che sono associate con sopravvivenza renale e complessiva peggiore (2).

 

CASO CLINICO
Paziente di sesso femminile, 55 anni, giunta alla nostra attenzione nel 2007 per alterati valori di creatinina (1,4 mg/dl) con FG 45 ml/min (secondo CKD-EPI), proteinuria 2 g/die; azotemia, elettroliti, emocromo nella norma.
PA 130/95 mm Hg. Non edemi periferici.
Diagnosi di Sindrome di Sjogren nel 2003. Non abuso di FANS, non esposizione a mezzo di contrasto organo-iodato, non diabete, non pregressi e attuali squilibri emodinamici.
Terapia: deltacortene 25 mg ½ cp/die.
Negli anni si assiste a lento progredire della funzione renale (nel 2009 creatinina 1,1 mg/dl, nel 2010 1,2 mg/dl, nel 2011 1,1 mg/dl, nel 2012 1,3 mg/dl, nel 2015 1,1 mg/dl, nel 2016 1,4 mg/dl, nel 2017 1,66 mg/dl) e risoluzione della proteinuria (0,4 g/die) con introduzione in terapia di agenti bloccanti il RAAS (ramipril 5 mg/die) fino al 2016 (proteinuria 1,34 g/die) in concomitanza di riduzione della terapia corticosteroidea (deltacortene 2,5 mg/die) e malgrado potenziamento della terapia con ACE-I (ramipril 10 mg/die).
Il nostro ambulatorio poneva diagnosi di insufficienza renale cronica conseguente a disfunzione tubulo-interstiziale cronica da Sindrome di Sjogren e richiedeva ripristino della terapia cortisonica a pieno dosaggio. Tale dato veniva corroborato da:
– Parametri di funzione renale, che escludevano la presenza di nefrite tubulo-interstiziale acuta, visto il lento progredire della nefropatia,
Normali valori di potassiemia, che escludevano la presenza di acidosi tubulare distale, sebbene, ipoteticamente, tale valore potesse essere falsamente aumentato dalla contemporanea terapia con ACE-I,
Assenza di glicosuria al dipstik urine, che escludeva la presenza di acidosi tubulare prossimale e sindrome di Fanconi,
Assenza di crioglobulinemia, che escludeva, oltre agli esami di funzione renale, la presenza di una GN membrano proliferativa.
Il reumatologo si opponeva a tale proposta terapeutica per la presenza di:
– Normali indici di flogosi: VES e PCR nella norma,
– tracciato elettroforetico interpretato, erroneamente, come indicativo di gammopatia monoclonale (figura 1),
– presenza di catene libere sieriche (catene k 682 mg/dl, catene lambda 350 mg/dl) e urinarie (catene k 11,6 mg/dl, catene lambda 3,7 mg/dl).

Figura 1

Sebbene:
– l’immunofissazione riportasse una componente policlonale B all’elettroforesi (figura 2), tipica della malattia di base,
– un referto ematologico indicasse che “il quadro è da inquadrare come reattivo alla sindrome di Sjogren e non come forma autonoma” e consigliasse, altresì, “di utilizzare la componente policlonale B come buon indicatore della risposta terapeutica alla malattia autoimmune”,
il reumatologo richiedeva l’esecuzione di biopsia renale, allo scopo di dirimere la diagnosi.

Figura 2

 

Attualmente in attesa di biopsia renale.

È veramente necessaria la biopsia renale? Perché la decisione terapeutica deve essere posta dal reumatologo? Non sarebbe più appropriato far gestire al nefrologo la terapia immunosoppressiva sulla base di dati non invasivi, quali creatinina/GFR e proteinuria?

Bibliografia:
1. Floege J., Johnson R., Feehally J. Comprehensive Clinical Nephrology, 2010
2. Fogo A., Lusco M., Behazard, AJKD Atlas of Renal Pathology: Kidne Disease in Primary Sjogren Syndrome, Am J Kidney Dis. 2017;69(6):e29-e30

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