Arteriolopatia calcifica uremica: un’entità clinica rara? Report di tre casi

Introduzione

L’arteriolopatia calcifica uremica (CUA) è una sindrome che si presenta nei pazienti in trattamento dialitico. È caratterizzata da calcificazioni della tonaca media delle arteriole cutanee ad evoluzione necrotica. Clinicamente si manifesta con insorgenza di placche e/o noduli sottocutanei, livedo reticularis, estese ulcerazioni del tessuto cutaneo e sottocutaneo. Tra i fattori favorenti sono segnalati: obesità, sesso femminile, diabete, iperfosforemia, infiammazione, terapia con Vitamina D, chelanti a base di calcio e warfarin (Brandeburg VM- 2011) [1] (full text)

Casistica e metodi

Abbiamo osservato tre casi di CUA nel periodo Ottobre 2011-Maggio 2013. All’esordio le lesioni venivano diagnosticate come poliartrite nodosa, ulcere flebostatiche o carcinoma del glande.

Le caratteristiche dei pazienti alla diagnosi sono riassunte nella figura 1.

Risultati

L’età media de pazienti al momento della diagnosi era 56 anni (range 33-68); all’esordio erano presenti livelli medi di PTH 1277 pg/ml (range 1000-1696), calcemia 10.2 mg/dl (range 9.4-11.1) e fosforemia 4.5 mg/dl (range 3.4-5.5). Tutti i pazienti assumevano vitamina D, due pazienti dicumarolici.

La prima paziente di  33 anni, obesa, a 19 anni veniva sottoposta a trapianto di rene durante il quale per la prevenzione di complicanze trombotiche correlate all’impianto del sistema venoso renale del donatore in un circolo collaterale, era stato necessario intraprendere terapia con dicumarolici. Dopo circa tre mesi dalla ripresa del trattamento emodialitico extracorporeo (Luglio 2011) si verificò la comparsa di noduli duri confluenti alle cosce, estremamente dolorosi associati a lesione ulcerativa all’interno della coscia sinistra. Fu eseguito un ecocolordoppler che risultò negativo per patologia vascolare mentre gli esami ematochimici mostravano un quadro di severo iperparatiroidismo. Venne posta diagnosi clinica di Panartrite nodosa e pertanto iniziata terapia con Prednisone, Ciclofosfamide e Pentossifillina. Ad ottobre 2011 per la rapida progressione clinica della malattia si decise di sottoporre la paziente a biopsia cutanea che risultò positiva alla colorazione di Von Kossa ottenendo diagnosi di CUA. Si intrapresero i seguenti provvedimenti terapeutici: sospensione della vitamina D e chelanti a base di calcio, introduzione di cinacalcet a dosaggio iniziale di 30 mg/die con graduale incremento a 180 mg/die, sostituzione del warfarin con ticlopidina  e riduzione della concentrazione di calcio nel bagno di dialisi a 1.25 mmol/l. Furono eseguite circa 60 sedute di OTI (ossigeno terapia iperbarica) e medicazioni chirurgiche trisettimanali. Si verificò un drammatico peggioramento della malattia con estensione delle lesioni alle cosce (figura 2), alle regioni glutee e agli arti inferiori con evoluzione verso la necrosi. A Dicembre 2011 iniziava terapia con sodio tiosolfato con dose test di 12.5 g seguita da 25 g nell’ultima mezz’ora del trattamento dialitico trisettimanale. Dopo circa tre settimane  si osservò  una sostanziale riduzione della sintomatologia dolorosa con progressiva comparsa di gettoni di tessuto di granulazione in corrispondenza delle aree necrotiche fino alla completa guarigione delle lesioni (figura 3) dopo sei mesi, con persistenza di noduli duri espressione verosimilmente di un processo panniculitico. La terapia con sodio tiosolfato fu continuata fino a circa un anno dopo l’avvio del processo ripartivo soprattutto per volontà della paziente ed è stata recentemente ripresa per tre mesi dopo la ricomparsa di dolore di tipo ischemico agli arti inferiori, regredito dopo due  settimane di terapia (recidiva di CUA da reintroduzione di piccole dosi orali paracalcitolo a seguito di una persistente  ipocalcemia?).

Il secondo paziente è un uomo di 68 anni che iniziava la dialisi peritoneale nel 2006 per nefroangiosclerosi ipertensiva.  Nell’ottobre 2012 veniva sottoposto ad amputazione del glande per sospetto carcinoma  successivamente diagnosticato come CUA all’esame istologico. Un mese dopo iniziava il trattamento dialitico extracorporeo e si assisteva ad un’estensione delle lesioni ulcerative agli arti inferiori (figura 4). Per la severa condizione di iperparatiroidismo anche in questo caso fu introdotto il calciomimetico a dosaggio di 180 mg/die e sospeso il calcitriolo e furono praticate sedute di OTI. La terapia con sodio tiosolfato fu invece iniziata un anno dopo, per la scarsa compliance del paziente, ad una dose massima tollerata di 20 g tre volte a settimana attualmente in corso. Il paziente per la particolare severità della malattia veniva sottoposto ad amputazione dell’avampiede sinistro e recentemente  del II,III,IV,V dito del piede destro.

La terza paziente è una donna di 67 anni in trattamento dialitico extracorporeo, affetta da cardiomiopatia dilatativa post-ischemica con FE 22 %, Fibrillazione atriale permanete in trattamento con warfarin, diabete mellito, BPCO.Nel marzo 2013 sviluppava lesioni ulcerative agli arti inferiori diagnosticate come ulcere flebostatiche dal  chirurgo vascolare. Giungeva alla nostra attenzione per il peggioramento e l’estensione delle lesioni nell’Aprile successivo (figura 5) per sospetto di calcifilassi che venne poi confermato dall’esame clinico (la paziente non fu sottoposta a biopsia cutanea). Fu subito sospesa la terapia con Vitamina D, il warfarin fu sostituiito con enoxaparina, fu introdotto il calciomimetico a dosaggio di 30 mg x 2 /die e instaurato un trattamento locale con l’ausilio del chirurgo generale. Non fu possibile invece sottoporre la paziente a sedute di OTI per le severe condizioni cliniche. Dopo circa un mese si iniziò la terapia con sodio tiosolfato a dosaggio di 25 g tre volte a settimana con progressiva guarigione delle lesioni (figura 6); il trattamento veniva sospeso dopo circa tre mesi.

In tutti i pazienti di grande rilevanza clinica è risultata la gestione del dolore di tipo terebrante, come da ischemia critica che non consentiva di poggiare la garza sugli arti, trattato con l’ausilio del collega Anestesita con FANS, paracetamolo, tramadolo, cerotto di Fentanil a concentrazioni crescenti, morfina per os nelle acuzie e “lecca lecca” al Fentanil nelle fasi di maggiore dolore come in caso di medicazione chirurgica o durante la seduta dialitica.

Per il trattamento locale invece è stato optato per un debridment chirurgico “cauto” in più step in considerazione sia delle condizioni cliniche dei pazienti sia del rischio di sanguinamento, con utilizzo di collagenasi, idrogel e medicazioni in schiuma di poliuretano.

Le infezioni delle ulcere, che rappresentano la principale causa di morte nei pazienti affetti da CUA, sono state trattate con terapia antibiotica specifica solo in presenza di segni di tipo  sistemico o in alternativa con trattamento topico con cadexomero iodico.

Si riscontrò un netto miglioramento del bilancio calcio-fosforo (in media PTH 331 pg/ml con range 200-465, calcemia 8.3 md/dl con range 7.4-9.6 e fosforemia 3.4 md/dl con range 2.6-3.8) ottenuto grazie alla terapia con cinacalcet e ad una progressiva e completa guarigione delle lesioni ulcerative (due pazienti su tre) per l’azione combinata con il  sodio tiosolfato e l’ossigeno iperbarico.

Il trattamento con sodio tiosolfato in tutti i pazienti ha provocato insorgenza di nausea e vomito probabilmente come conseguenza dell’instaurarsi di una condizione di acidosi metabolica (Brucculeri M- 2005) [2] gestiti aumentando la concentrazione  del bicarbonato nel bagno di dialisi, mentre l’interruzione del trattamento induceva ripresa del danno ischemico e della sintomatologia dolorosa.

Conclusioni

La nostra esperienza conferma che la CUA è una patologia che richiede diagnosi e trattamento precoce trattandosi di un disturbo a rapida evolutività ed elevata mortalità e che spesso risulta sottodiagnosticata anche se l’incidenza nei pazienti dializzati è in aumento. E’ indispensabile  un’attenta sorveglianza clinica con l’eliminazione di tutti i possibili fattori di rischio. Gli elementi patogenetici prevalenti ovvero l’alterata omeostasi calcio-fosforo e l’iperparatiroidismo erano presenti in tutti i casi da noi osservati, anche se va sottolineato che esistono forme di CUA con livelli di PTH, calcio e fosforo nella norma, indicando che esistono altri fattori responsabili dell’insorgenza della malattia che tuttora persiste in fase attiva nel secondo paziente nonostante il miglioramento del bilancio calcio-fosforo. Ruolo principale sembra essere svolto dallo stato infiammatorio  che  secondo alcuni studi correla con la riduzione della Phetuin A, una glicoproteina inibitrice della calcificazione.

Un fattore scatenante di fondamentale importanza è risultato la terapia con dicumarolici assunta in due pazienti su tre, per la riduzione dell’attività della proteina di matrice Gla,anch’essa avente la funzione di potente inibitore delle calcificazioni arteriolari (Schurgers LJ-2007  [3] (full text)).

L’azione chelante, vasodilatatoria ed antiossidante del sodio tiosolfato (Vedvyas C-2011) [4] ha contribuito alla  guarigione delle ulcere e ad una sostanziale riduzione della sintomatologia dolorosa anche se l’efficacia terapeutica non è dimostrabile essendo utilizzato in associazione ad altri trattamenti così come la durata e il dosaggio ottimale restano da stabilire.